IL PRETORE
    Ha  pronunciato  la  seguente ordinanza nel procedimento penale n.
 1099/1993 r.g. a carico di Santella Roberto,  imputato  quale  legale
 rappresentante  dello stabilmento industriale Elettrocarbonium, oltre
 altri reati, del reato di cui agli  artt.  16  e  26  del  d.P.R.  n.
 915/1982  per  avere  "effettuato lo smaltimento mediante combustione
 dei  rifiuti  tossico-nocivi  costituiti   dalle   peci   provenienti
 dall'abbattimento  delle  emissioni  da  parte  degli elettrofiltri a
 servizio dei forni di cottura senza autorizzazione",  osserva  quanto
 segue.
    La difesa ed il p.m. di udienza hanno richiesto assoluzione per il
 reato  citato  (capo  e)  assumendo che il fatto non e' piu' previsto
 dalla legge come reato ai  sensi  del  decreto-legge  n.  619  del  7
 novembre  1994,  art.  12, in quanto i reati per cui e' processo sono
 considerati residui riutilizzabili dal d.m. 5 settembre 1994  (ed  il
 principio  deve  essere  applicato  ai  fatti pregressi per specifica
 disposizione del decreto-legge citato).
    Rileva il pretore che la questione inerente  l'applicabilita'  del
 decreto-legge  n. 619/1994 in ordine al capo e) di imputazione merita
 esame in quanto direttamente pertinente e pregiudiziale rispetto alla
 materia processuale in questione.
    Al riguardo osserva il pretore quanto segue.
    1) La disciplina giuridica del settore ha fino ad oggi considerato
 come rifiuti tutti i residui derivanti da processi produttivi,  anche
 se   riutilizzabili,  escludendo,  allo  stato,  la  possibilita'  di
 evoluzione diretta dei rifiuti in materie prime secondarie.
    Costituisce cristallizzazione  di  questo  principio  la  basilare
 sentenza  delle sezioni unite della Cassazione n. 5 in data 29 maggio
 1992 - Ud. 27 marzo 1992 - Imp. Viezzoli:
    "In tema di smaltimento di rifiuti industriali,  con  il  d.-l.  9
 settembre 1988, n. 397, conv. in legge 9 novembre 1988, n. 475, si e'
 inteso  riservare  un  regime  giuridico  diverso  da quello cui sono
 sottoposti i  rifiuti  in  generali  residui  derivanti  da  processi
 produttivi,  suscettibili  di  riutilizzazione,  qualificabili,  come
 materie  prime  secondarie   ai   sensi   dell'art.   2   del   detto
 decreto-legge.  Peraltro  nel  menzionato  art.  2  il legislatore ha
 dettato solo una normativa-quadro, di tal  che,  perche'  a  siffatti
 residui  sia applicabile la nuova disciplina in deroga, e' necessario
 che siano prima emanate le norme di cui ai commi quarto e  sesto  del
 predetto  articolo.  Ne consegue che sino a tale momento alle materie
 prime secondarie continua ad applicarsi la  disciplina  generale  sui
 rifiuti  di  cui al d.P.R. 10 settembre 1982, n. 915. (Nell'affermare
 il principio di cui in massima la Cassazione ha anche evidenziato che
 le materie prime secondarie, proprio perche' si tratta pur sempre  di
 sostanze  di  cui il donatore si disfa o ha l'intenzione di disfarsi,
 non rappresentano una categoria autonoma ed alternativa  rispetto  ai
 rifiuti  veri e propri, ma ne costituiscono solo una specie, sia pure
 particolare, attesa la loro  provenienza  e  la  loro  attitudine  ad
 essere utilizzate come materie prime in altri processi produttivi)".
    In  tale  contesto la giurisprudenza ha fino ad oggi affermato che
 nella generale categoria dei rifiuti rientrano non solo le sostanze e
 gli oggetti che si possono considerare tali sin dall'origine (ad  es.
 immondizie),  ma  anche  quelle sostanze ed oggetti non piu' idonei a
 soddisfare i bisogni cui essi erano originariamente destinati, pur se
 non  ancora  privi  di  valore  economico,  sicche'  "abbandonato   o
 destinato  all'abbandono"  va inteso non nel senso civilistico di res
 nullius o di res derelicta, disponibile alla apprensione di chiunque,
 sebbene di sostanza od oggetto ormai inservibile  alla  sua  funzione
 originaria,  dismesso  o destinato ad essere dismesso da colui che lo
 detiene, anche mediante un negozio giuridico. (Cfr. Cass.  sez.  III,
 26 febbraio 1991, n. 2607 - Imp. Lunardi).
    Consegue  che,  nella  dottrina  e  giurisprudenza  fino  ad  oggi
 tracciata, se quello sopra delineato e' il concetto  di  rifiuto,  e'
 evidente  allora che "le materie prime secondarie, proprio perche' si
 tratta pur sempre di sostanze di cui  il  detentore  si  disfa  o  ha
 l'intenzione  di  disfarsi,  lungi  dal  rappresentare  una categoria
 autonoma ed alternativa dei rifiuti veri e propri,  ne  costituiscono
 solo  una  specie, sia pure particolare, attesa la loro provenienza e
 la loro attitudine ad essere utilizzate come materie prime  in  altri
 processi  produttivi".  (Cfr.  motivazione  citata  sentenza  sezioni
 unite).
    2) La giurisprudenza italiana, e comunitaria, ha sempre  rifiutato
 di  accogliere la tesi che un rifiuto, se riutilizzabile, non e' piu'
 un rifiuto, con la conseguente deregolamentazione e sottrazione  alla
 disciplina specifica in materia (in Italia, il d.P.R. n. 915/1982).
    Va  rilevato  che  la  sentenza  "interpretativa"  n.  359  del 14
 febbraio 1988 della Corte europea di  giustizia  precisava  che  "una
 normativa  nazionale  la  quale  adotti  una  definizione  di rifiuto
 escludente le sostanze e gli oggetti suscettibili di  riutilizzazione
 economica  non  e'  compatibile  con  le  direttive  CEE"  (riportata
 integralmente in Amendola - "Inquinamento ed industria" - Roma 1992).
    3) Le direttive CEE n. 156 del 18 marzo  1991  e  n.  689  del  12
 dicembre 1991 ed il regolamento n. 259 del 1 febbraio 1993, ancora da
 recepire in Italia, hanno impostato un criterio a livello europeo per
 disciplinare  alla  radice  il  concetto,  creando il principio delle
 materie prime secondarie con connesse procedure semplificate per quei
 residui destinati al riutilizzo o alla produzione di energia.
    Va  sottolineato,  al  riguardo,  che  in  particolare  la   nuova
 direttiva-quadro91/156  (per  la quale e' scaduto il 1 aprile 1993 il
 termine ultimo per il recepimento in Italia) delinea da  un  lato  in
 modo  particolareggiato  l'ambito dei rifiuti recuperabili, definendo
 sia le operazioni di recupero sia  i  rifiuti  che  ad  esse  possono
 essere   sottoposti   (senza   equivoci   di   carattere   soggettivo
 unilaterale), e dall'altro autorizza adempimenti semplificati per  le
 operazioni  che li riguardano.  (Cfr. Amendola - "I rifiuti normativa
 italiana e comunitaria" - Milano 1992).
    4) In  detto  contesto  si  inserisce  la  decretazione  d'urgenza
 operata  nel  nostro Paese in materia, il cui ultimo provvedimento e'
 costituito dal decreto-legge n. 619 del 7 novembre 1994.
    Ad  avviso  dello  scrivente  pretore  il  citato   decreto-legge,
 prevedendo  principi  che tendono a sottrarsi alla disciplina fino ad
 oggi delineata dalla dottrina  e  dalla  giurisprudenza  nazionale  e
 comunitaria come sopra esposta, si pone in contrasto con la direttive
 CEE in materia.
    5)  In  primo  luogo si rileva che sussiste netto contrasto con le
 normative di settore esistenti e le sentenze della Cassazione,  della
 Corte  costituzionale  e della Corte europea di giustizia laddove con
 un semplice espediente terminologico  si  sottraggono  in  blocco  ed
 all'improvviso  alla  disciplina  del  d.P.R. n. 915/1982 (che regola
 anche i rifiuti da recuperare  e  riutilizzare)  ed  alla  disciplina
 comunitaria  (che  li  chiama  "rifiuti destinati al recupero") tutti
 quei rifiuti che vengono ribattezzati "residui" e  non  si  chiarisce
 mai espressamente se essi rientrano nella categoria dei "rifiuti".
    Va  osservato che la categoria dei "residui" (definiti dall'art. 3
 - g - "sostanze residuali  suscettibili  di  essere  utilizzate  come
 materia  prima e fonti di energia") rientra senza ombra di dubbio tra
 quelli che il d.P.R. n. 915/1982 e la normativa comunitaria 1991-1993
 chiamano "rifiuti da recuperare".
    Del  resto,  ad  esempio,  l'art.  7  del  decreto  sui  movimenti
 transfrontalieriammette che i "residui" sono disciplinati, quanto  ad
 import-export,  dal  regolamento  CEE  n.  259  il  quale  riguarda i
 "rifiuti"; ed ancora l'art. 1,  quarto  comma,  premette  che  queste
 disposizioni sui residui si applicano in attesa dell'attuazione delle
 direttive  CEE  sui  rifiuti  e  richiama  espressamente  proprio  la
 "definizione  e  la  classificazione  dei  rifiuti  effettuate  dalle
 direttive CEE".
    Questi  punti  confermano  ulteriormente l'identita' di fatto e di
 principio tra "residui" e "rifiuti".
    6) Il decreto-legge in esame sottrae in primo  luogo  a  qualsiasi
 procedura  ed  obbligo  tutti  quei  "materiali" che siano quotati in
 borse merci o in listini e mercuriali ufficiali costituiti presso  le
 camere  di  commercio  dei  capoluoghi  di  regione,  nonche' tutti i
 semilavorati non costituenti residui di produzione e  di  consumo;  e
 con  cio' si supera anche la categoria dei "residui" creando una zona
 franca completamente deregolamentata.
    Quindi per sottrarre quello che fino ad oggi e' stato  considerato
 un "rifiuto" addirittura dalla gia' blanda categoria dei "residui" e'
 sufficiente  un  attestato di quotazione di camera di commercio e una
 "ricognizione positiva" del  Ministero  dell'ambiente;  ed  in  detto
 contesto,  secondo le evoluzioni del caso, possono in linea teorica e
 potenziale rientrare gran parte dei rifiuti industriali.
    Si tende cosi' a creare di fatto una sottrazione alla fino ad oggi
 attuata  disciplina  penale  di  detti  materiali  con  la   semplice
 annotazione   nel  corpo  di  un  listino  ufficiale  amministrativo,
 peraltro potenzialmente diverso da regione a regione.
    L'elenco dei materiali  predisposto  dal  Ministero  dell'ambiente
 contiene molti di quelli che la direttiva CEE qualifica come "rifiuti
 recuperabili",  unitamente  a  rifiuti  storicamente oggetto di forte
 contenzioso penale a carico delle aziende  produttrici  nel  contesto
 della  disciplina  sui  rifiuti  ex  d.P.R.  n. 915/1982 (si pensi, a
 titolo di esempio, alle ceneri ed al caprolattame).
    7) Il decreto-legge in esame in secondo luogo crea, in  attesa  di
 future  evoluzioni  regolamentative,  una  disciplina  transitoria ed
 immediata che di fatto sottrae al  regime  di  gestione  dei  rifiuti
 (inclusi  obblighi e doveri) tutti i residui, anche tossici e nocivi,
 definiti come materie prime secondarie dall'allegato 1  del  d.m.  26
 gennaio  1990, incurante del fatto che la Corte costituzionale con la
 sentenza n. 512 del 15 ottobre 1990 ha in gran  parte  cancellato  il
 testo del d.m. stesso argomentando, tra l'altro, che l'individuazione
 di quelle materie prime secondarie non poteva essere compiuta "con le
 garanzie di certezza richieste".
    8)  Va  ancora  rilevato  che  viene  ancora allargato l'ambito di
 questi  residui  "identificati"  e  delle  relative   operazioni   di
 "recupero"  con  il  d.m.  5  settembre  1994 perche' l'allegato 3 di
 questo decreto e'  vastissimo  e,  di  fatto,  estende  l'ambito  dei
 residui  a  questi  tutti  i  rifiuti industriali. Le caratteristiche
 previste rischiano di restare lettera morta a livello di fatto se  si
 considera  la  carenza  strutturale,  numerica  e professionale degli
 organi di  controllo  tecnici.  E'  facile  prevedere  che  in  detto
 contesto,  nel  quale  ancora  peraltro  non  e'  stata resa operante
 l'Agenzia per l'ambiente, gran parte dei rifiuti industriali  saranno
 trasformati  in "materiali" deregolamentati in toto o, al massimo, in
 "residui". Con azzeramento di tutta la disciplina sui rifiuti fino ad
 oggi  seguita  ex  d.P.R.  n.  915/1982 ed in palese contrasto con le
 direttive specifiche della CEE in materia.
    9) Si  deve  inoltre  registrare  una  modifica  ad  un  principio
 portante del d.P.R. n. 915/1982 eliminando, a determinate condizioni,
 l'obbligo   di   autorizzazione  e  di  iscrizione  all'albo  per  lo
 "stoccaggio   provvisorio"   dei    rifiuti    tossici    e    nocivi
 nell'"insediamento  di  produzione  o trattamento". E che trattasi di
 principio-cardine, uno degli assi portanti del sistema di  disciplina
 sui  rifiuti  fino  ad  oggi  impostato  dal  d.P.R.  n. 915/1982, e'
 confermato dal fatto che la Corte costituzionale (2 novembre 1992  n.
 437) aveva bocciato tentativo analogo perche', trattandosi di rifiuti
 pericolosi,  si  elimina  questo obbligo vengono meno quei "requisiti
 specifici affinche' sia garantita l'eliminazione di ogni pericolo per
 la salute ed il degrado ambientale".
    10) Il sistema sanzionatorio penale e' del  tutto  svuotato  nella
 sua  portata di fondo perche' le sanzioni penali introdotte dall'art.
 12 del decreto, in non chiaro parallelo con il  d.P.R.  n.  915/1982,
 partono  dal  presupposto di comun denominatore che i rifiuti-residui
 sono scarsamente pericolosi per la salute pubblica e per l'ambiente e
 dunque  traccia  norme  ben  piu'  benevole  in  senso  deterrente  e
 repressivo.
    Va  notato,  peraltro,  che trattasi delle stesse sostanze fino ad
 oggi soggette al severo sistema sanzionatorio penale  del  d.P.R.  n.
 915/1982  e  che  hanno  perso  pericolosita'  soltanto grazie ad una
 modifica terminologica di definizione.
    Uno dei punti-cardine  e'  costituito  dal  fatto  che  molti  dei
 residui  elencati  nell'allegato 3, per i quali non e' previsto alcun
 tipo di trattamento ne' e' prevista con precisione la destinazione  a
 cui  essi  possono  essere  indirizzati,  vengono  considerati sic et
 simpliciter residui  non  soggetti  al  d.P.R.  n.  915/1982  perche'
 "destinabili"  ad  un  "possibile"  riutilizzo  che  pero'  non viene
 precisato.
    Va ancora  rilevato  che  molti  dei  rifiuti  vengono  ad  essere
 classificati  come  residui  prevedendo per la loro utilizzazione dei
 processi che si possono ricondurre tutti alla combustione,  cosicche'
 nell'ambito  di tali processi vengono ad eliminarsi tutte le sostanze
 organiche in esse contenute appunto mediante  combustione  o,  se  si
 applicasse  la  normativa  sui rifiuti, mediante incenerimento; tutto
 cio' determina che il processo di incenerimento a cui questi  residui
 sono  sottoposti  viene  pero'  sottratto  alla  disciplina  ed  alla
 normativa tecnica precisa che riguarda  l'incenerimento  che  sarebbe
 invece  applicabile  se  tali residui fossero considerati rifiuti; in
 pratica  la  nozione  di  riciclo  viene  di   fatto   a   mascherare
 l'incenerimento   delle  sostanze  inquinanti  presenti  nel  rifiuto
 iniziale.
    Molti dei rifiuti, inoltre, vengono ad essere  denominati  residui
 non  perche' riutilizzabili in reali cicli di produzione come materie
 prime o come energia, ma ammettendo semplicemente  che  essi  possano
 essere   utilizzati  per  riempire  depressioni  del  terreno  o  per
 realizzare  rilevati  e  quindi  di  fatto  possono  essere   attuate
 attivita'  che  se  soggette  alla  normativa  prevista dal d.P.R. n.
 915/1982 sarebbero da considerare  discariche  in  depressione  o  in
 rilevato.
    Anche  in  questo  caso,  come  nel  precedente  in  cui  veniva a
 determinarsi  una  deregulation  dell'incenerirnento,  si  attua  una
 deregulation   della   discarica  che  viene  ad  essere  denominata,
 paradossalmente, ripristino ambientale.
    Altro  elemento  da  considerare  e'  che   in   molti   casi   le
 caratteristiche   sia   dei   prodotti  di  partenza  che  di  quelli
 riutilizzabili, nel caso questi differiscano dai primi, non  sono  in
 alcun  modo  precisate  e  quindi  il  loro  utilizzo resta del tutto
 indefinito  perche'  unico  elemento  di  riferimento  e'  la   frase
 ricorrente   "nelle   forme   usualmente  commercializzate"  che,  in
 considerazione dei notevoli interessi economici che vengono coinvolti
 nelle attivita' di smaltimento rifiuti, e' del tutto irrilevante.
    Sempre  nell'ambito  della   deregulation   delle   attivita'   di
 smaltimento,  oltre  quanto  gia'  indicato per gli inceneritori e le
 discariche, vengono ad essere  anche  sottratte  alla  normativa  dei
 rifiuti anche le attivita' di trattamento finalizzate non al recupero
 ma  alla  semplice  inertizzazione  del  rifiuto stesso senza che per
 questo successivamente sia previsto un qualsiasi riutilizzo.
    11) Il decreto,  sempre  a  livello  sanzionatorio,  introduce  un
 pericoloso   ed   opinabile   elemento   di   valutazione  soggettiva
 unilaterale laddove prevede nel comma 6 ultima parte dell'art. 12 che
 le sanzioni del d.P.R. n. 915/1982 si applicano  "qualora  i  residui
 non siano destinati in modo effettivo ed oggettivo al riutilizzo".
    E  si  riapre  cosi'  un  contenzioso interpretativo antico che la
 dottrina e la giurisprudenza avevano cancellato  prevedendo  il  gia'
 sopra  esposto concetto dell'impossibilita' del passaggio diretto tra
 rifiuti e materie prime secondarie e relegando nel concetto  comunque
 di rifiuti anche i materiali suscettibili di riutilizzo.
    Le   citate   direttive  CEE  dettano  invece  norme  oggettive  e
 risolutive in questo campo.
    Il concetto di destinazione "in modo  effettivo  ed  oggettivo  al
 riutilizzo" ricollega di fatto primaria importanza alle dichiarazioni
 unilaterali  e  soggettive  dell'imprenditore,  posto  che  spettera'
 all'accusa provare il contrario e cioe' che non vi e' stato ne' sara'
 possibile potenzialmente il citato riutilizzo.  L'opinabilita'  e  la
 infinita'  possibilita'  di  interpretazioni  diversificate  caso per
 caso, materiale per materiale, creano di  fatto  una  prospettiva  di
 contenzioso  infinito  dai  contorni  e  dagli estremi privi di' ogni
 punto di riferimento di certezza e limite oggettivo.
    12) Si  rileva  ancora  che  il  decreto  "sana"  qualsiasi  reato
 commesso  in tema di "residui" in passato utilizzando in bonam partem
 anche il d.m. del 1990, annullato dalla Corte  costituzionale,  e  le
 norme  regionali  di  favore;  cosi'  creando  comunque una moratoria
 penale in un settore di gravissima incidenza sul campo  della  salute
 pubblica e della tutela dell'ambiente.
    13)  Si  rileva  inoltre  che  la modifica in esame, sulla base di
 quanto sopra esposto, si pone in evidente contrasto con il  principio
 "chi inquina paga", oggi chiaramente presupposta da diverse decisioni
 della  Corte  di  cassazione  (tra  le  altre, Cass. pen. sez. III, 2
 febbraio 1994, n. 2525 e Cass. pen. sez. III, 6 aprile 1993 n. 3148).
 La norma denunciata infatti favorisce apertamente chi ha  violato  la
 legge  e  penalizza,  invece,  anche  sul piano della concorrenza tra
 imprese,  proprio  le  aziende   che   hanno   affrontato   rilevanti
 investimenti per adeguare i propri impianti e le proprie procedure di
 stoccaggio,   deposito   e   smaltimento   alle  esigenze  di  tutela
 ambientale; e cio' appalesa, ad avviso dello scrivente, un  contrasto
 con l'art. 41 della Costituzione.
    14)   In  detto  svuotamento  sanzionatorio  di  uno  dei  sistemi
 normativi piu' importanti in materia di tutela ambientale, cosi' come
 tracciato nei punti precedenti, si profila ad avviso dello  scrivente
 pretore  una violazione del disposto dell'art. 9, secondo comma della
 Costituzione, laddove la tutela del paesaggio, inteso secondo le piu'
 recenti  pronunce  della  Corte   di   cassazione   e   della   Corte
 costituzionale, non deve essere inteso solo come bellezza estetica da
 cartolina ma come ambiente naturale in senso lato, quindi comprensivo
 anche degli inevitabili ed inscindibili aspetti bionaturalistici.
    L'incertezza  del  diritto  derivante  dalla  sinergia del sistema
 creato dal decreto in esame favorisce potenzialmente  la  dispersione
 di  rifiuti, anche pericolosi, nell'ambiente naturale con conseguente
 grave nocumento per l'integrita' dell'ambiente.
    15) Per gli stessi motivi esposti in relazione  all'art.  9  della
 Costituzione,  si ritiene che la norma in esame si ponga in contrasto
 anche con l'art. 32 della Carta costituzionale. Infatti nel  concetto
 di  tutela  della  salute come principio costituzionalmente garantito
 deve, per forza di cose, ricomprendersi il piu' vasto concetto  della
 salute  pubblica nel senso della salubrita' dell'ambiente naturale ed
 urbano ove ciascun cittadino vive.  Il  diritto  alla  salute  inteso
 anche  come diritto all'ambiente salubre e' stato ormai ripetutamente
 accertato in giurisprudenza (si veda per  tutte  la  famosa  sentenza
 delle  sezioni  unite  n.  517  del  6 ottobre 1979, nonche' la Corte
 costituzionale in data 30 dicembre 1987 n. 641 ed in  data  16  marzo
 1990  n.  127).  E'  fuor  dubbio che la diminuita, ed anzi per certi
 versi  di  fatto  del  tutto  caducata,  possibilita'  di  intervento
 deterrente/punitivo   in   sede   di   illeciti   da  rifiuti,  anche
 potenzialmente pericolosi, crea  i  presupposti  per  una  evoluzione
 incontrollata  del  fenomeno,  incoraggiata  dall'abbassamento  della
 guardia in sede di controlli di p.g.  e  possibilita'  di  intervento
 processuale; e tutto questo si traduce in via diretta in un danno per
 la  salute  e  salubrita'  pubblica  in  un  ambiente che resta cosi'
 maggiormente ed incontrollatamente esposto al degrado inquinante.
    16) Si deve quindi argomentare che, con la  chiave  di  volta  del
 ricorso  alla differenziazione terminologica "residui" e "materiali",
 il decreto-legge in esame opera una deregolamentazione  sulle  stesse
 identiche  materie  che  la normativa europea qualifica come "rifiuti
 destinati al recupero" e dunque si  pone,  a  livello  di  fatto,  in
 contrasto  con  le  direttive  CEE sopra citate prevedendo rispetto a
 detti testi normativi un trattamento ben piu' generoso  e  per  certi
 versi del tutto deregolamentato.
    Il  contrasto  si sviluppera' in tutta la sua portata allorquando,
 entro il marzo 1995 (vedi legge comunitaria n. 146  del  22  febbraio
 1994),  il Governo dovra' dare attuazione alle due direttive CEE dell
 1991 "uniformando la disciplina nazionale alle  definizioni  ed  alle
 classificazioni  dei  rifiuti  individuati  come tali dalla normativa
 comunitaria" e con particolare  attenzione  proprio  al  settore  dei
 rifiuti recuperabili (art. 38, primo comma).
    17)   Premesso   quanto   sopra,   questo   pretore  dichiara  non
 manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
 del  decreto  legge  n.  619  del  7  novembre 1994 nella sua stesura
 integrale, intesa nella sinergia inscindibile di tutti  gli  articoli
 interconnessi,  in  relazione  agli artt. 3, 9, 10, 25, 32 e 41 della
 Costituzione.
    In relazione agli artt. 3 e 25 richiama  le  argomentazioni  sopra
 esposte  con particolare riferimento al fatto che il decreto in esame
 ha attribuito  di  fatto  alle  camere  di  commercio  il  potere  di
 sottrarre  alla disciplina dettata per i rifiuti i materiali inseriti
 nei listini ufficiali, con la conseguenza  di  sottrarre  gli  stessi
 alla   regolamentazione   prevista   dallo   stesso   decreto  o,  in
 alternativa, al trattamento sanzionatorio del d.P.R. n. 915/1982, con
 cio' creando di fatto un contrasto con i principi  costituzionali  di
 parita'  di  trattamento  e  riserva  di legge penale atteso che, tra
 l'altro, dall'inclusione nei listini ufficiali operata  dalla  camera
 di   commercio   in  una  regione  e  non  in  un'altra  dipenderebbe
 l'operativita' o meno degli obblighi  sanciti  nel  decreto,  con  le
 relative  sanzioni, e specularmente di quelli stabiliti nel d.P.R. n.
 915/1982, con  la  conseguenza  che  uno  stesso  materiale  potrebbe
 ricevere  un  diverso  trattamento  a  seconda del luogo ove la legge
 viene applicata.
    Quanto alla violazione della riserva di legge,  il  meccanismo  in
 questione  rende  possibile,  diversamente  configurando  un elemento
 della fattispecie penale, la rilevanza penale di un medesimo fatto  (
 sub  d.-l.  n.  619/1994  e sub d.P.R. n. 915/1982) in relazione alla
 diversa e non definitiva classificazione dei materiali da parte delle
 locali camere di commercio.
    Si  rileva  peraltro  che  non  sana  detto  problema  il  decreto
 ministeriale  5  settembre 1994 perche' trattasi di d.m. modificabile
 in ogni momento  e  quindi  dalle  sue  modifiche,  in  sinergia  con
 l'attivita'  delle  camere di commercio, dipende l'applicazione della
 legge penale con totale incertezza del diritto in sede relativa.
    In relazione all'art. 10 della Costituzione si  richiama  in  modo
 integrale  quanto  sopra esposto in riferimento al contrasto di fondo
 generale tra il decreto-legge in esame e la normativa CEE in materia,
 fatto  che  determina  in   via   diretta   una   possibile   mancata
 conformazione  dell'ordinamento  giuridico  italiano  alle  norme del
 diritto internazionale riconosciute.
    In ordine agli  altri  articoli  della  Costituzione  si  richiama
 quanto espresso nei punti precedenti.
    Su  detti temi si sottopone la questione alla Corte costituzionale
 affinche' stabilisca se il dettato del decreto-legge  n.  619  del  7
 novembre  1994  nella  sua  stesura  integrale, intesa nella sinergia
 inscindibile di tutti gli  articoli  interconnessi,  con  particolare
 riferimento  agli  artt.  2  e 12 ed agli articoli ivi richiamati, si
 ponga in contrasto con gli  artt.  3,  9,  10,  25,  32  e  41  della
 Costituzione.
    Da  quanto  sopra  esposto, emerge che in applicazione della norma
 oggetto del giudizio di costituzionalita' alla  Corte  costituzionale
 dovrebbe  procedersi  a  verifica in ordine al capo e) di imputazione
 per appurare se la richiesta della difesa e  del  p.m.  debba  essere
 accolta  ritenendo  legittima  la  classificazione  dei  materiali in
 questione cosi' come proposta dalla  difesa  stessa  e  dal  p.m.  in
 relazione  al  decreto-legge  in  esame  (con conseguente assoluzione
 dell'imputato dal capo e) o se, invece, debba procedersi  a  giudizio
 ordinario  sulla  base  dei  principi  antitetici  sopra  tracciati e
 secondo  i  canoni  di  certezza  del diritto fino ad oggi seguiti in
 materia.
    Dalle considerazioni esposte si desume che  il  presente  giudizio
 non  puo'  essere  definito,  allo  stato  e  vigente  i principi del
 decreto-legge n.  619/1994  in  esame,  in  modo  indipendente  dalla
 risoluzione della questione di legittimta' costituzionale.